Letture: 1Re 2,1-4.10-12; Mc 6,7-13
“I giorni di Davide si
erano avvicinati alla MORTE”.
L’inizio della prima
lettura mi ha riportato indietro al lontano 2008 quando avevo lasciato il
Bangladesh per iniziare il mio impegno, qui nella Casa Madre, al IV
piano. La morte di Davide richiama la MORTE con
la M maiuscola: un argomento scottante, mitigato dalle ultime righe
della lettura: Davide si addormentò con i suoi padri.
In occasione della XXX
Giornata del malato, volentieri pubblichiamo questa riflessione del nostro
confratello, Dott. Gildo Coperchio. È stata condivisa il 3 febbraio
2022 durante la messa del GAMS (Gruppo amici dei Missionari Saveriani), a Parma,
nel santuario San Guido M. Conforti. Come spiega lo stesso autore, “sono
considerazioni nate sul campo di battaglia, o meglio di missione, soprattutto
quando, uscito dal Fatima Hospital (a Jessore, ndr), ho trovato ospitalità
nella missione di Chuknagar, ritrovandomi così ad essere un medico di
villaggio”.
Poco prima di tornare
dal Bangladesh, mi domandavo che cosa potessero pensare della morte i
confratelli ammalati, anziani che avrei incontrato al IV piano. Un piano che
aveva la fama di essere “la porta del Paradiso”.
Era il periodo in cui,
in linea con il pensiero cosiddetto moderno, della morte quasi non si voleva
parlare, anzi non si doveva parlare, doveva essere tenuta lontano dalla mente,
dal cuore, dal pensiero… La morte fa paura. Si cerca, così, di esiliarla
nell’oblio.
Eppure, quando un
giorno con il P. Pellerzi avevo pronunciato sommessamente la parola ‘morte’, mi aveva ringraziato di averlo fatto. Così non mi meravigliai quando, un
mattino di Gennaio del 2009, in cappella Martiri, dopo il versetto introduttivo
della preghiera delle lodi, si era accasciato su una sedia “amorevolmente
abbracciato dalla morte” nella sorpresa, incredulità, e direi anche invidia dei
confratelli che erano presenti. O Dio vieni a salvarmi. Signore vieni
presto in mio aiuto, aveva appena
pregato. E il suo Signore era venuto.
Dal testo del Vangelo,
vi propongo il versetto finale: Ed essi, gli apostoli, partiti
proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano demoni, ungevano con olio
molti infermi e li guarivano. Convertirsi, “a” o
“da che cosa?” Leggevo molto tempo fa che non c’è guarigione senza
conversione. Che sia questa la conversione proclamata dagli apostoli?
Non so dirvi se,
essendo medico, il mio operare sia stato guidato da questo sapore evangelico;
avevo letto tante volte nel Vangelo del Cristo che camminava per le strade
della Galilea annunciando il Regno di Dio… con le sue parole di consolazione,
di promessa, di speranza e con le sue opere, soprattutto con la guarigione dei malati.
Mi nasce così spontanea la domanda: come è stata e come è oggi la nostra
missione? Come annunciamo noi il Regno di Dio?
Troppo spesso pensiamo
di essere noi i salvatori del mondo... pensiamo di avere la parola magica, gli
interventi più appropriati e dimentichiamo in questo modo che ciò che più conta
è il non cedere alla tentazione del fare cose grandiose ad ogni costo. Una attività che ci assorbe al punto di non aver più tempo nelle
nostre giornate per fare ciò che leggiamo di Gesù nel Vangelo di Marco: abbracciare i
bambini (Mc 9,36; 10,16), toccare le lingue dei sordomuti (Mc 7,33), mettere la
saliva sugli occhi dei ciechi (Mc 8,22); provare simpatia (Mc 10,21), delusione
(Mc 10,23), incoraggiamento (Mc 10,27). Ovviamente non siamo
super-uomini, abbiamo dei limiti: non riusciamo a fare miracoli, e quando ci
riusciamo è solo quando ci crediamo veramente (Mc 6,5); non conosciamo che cosa
ci aspetta; e a volte gridiamo pieni di paura sentendoci abbandonati: "Dio
mio, Dio mio".
Eppure questo è il Vangelo. E così capita che nel momento in cui
accettiamo di ungere con olio gli infermi e questi guariscono, noi stessi, increduli, ce ne meravigliamo.
Come Cristo, anche noi
siamo chiamati ad amare (Mc. 9, 36; 10, 16; 10, 21-22) e a soffrire non solo
fisicamente ma anche moralmente (Mc. 14, 32-42). Siamo chiamati ad aprirci a
tutti, anche alle persone che, umanamente parlando, non meritano come i
peccatori e i pubblicani, i lebbrosi (Mc. 2, 15), come quelli che ci guardano
con disprezzo, che ci sfruttano, che parlano male di noi, che ci perseguitano.
Come Gesù siamo chiamati ad ammaestrare (Mc. 10,1) alla vera speranza, alla
vera fede, al vero amore…, alla serenità.
Devo confessare che in
Bangladesh ho imparato a leggere le pagine del Vangelo sui volti della gente
che incontravo negli ambulatori, sui pullman, per le strade, nelle lunghe file
di pazienti che mi aspettavano nel villaggio. In molti mi facevano
domande, ma che cosa potevo insegnare? Cosa potevo dare oltre alle medicine e a
qualche moneta?
Ho scoperto con fatica
che per rispondere, per ammaestrare, dovevo convincermi
davvero che la cosa più importante era continuare a sedermi sugli scalini di un bungalow per ascoltare con pazienza e
serenità, senza fretta coloro che
cercandomi volevano da me una guarigione miracolosa, la certezza di un figlio
che aspettavano da anni, la sicurezza che per il bimbo che stava per nascere
non ci sarebbero stati problemi, una soluzione ai tanti infiniti problemi di
una vita giocata per la sopravvivenza (“oggi mia madre non ha fatto il
mercato”…).
I miei pazienti mi
ripetevano ciò che tante volte avevo letto nel Vangelo: fa che io veda...; se
tu vuoi, mio figlio, mia figlia guarirà...; se tu mi tocchi io sarò guarito. Sì, è successo anche a me che qualcuno prendesse la mia mano perché lo
toccassi. In quei momenti ti senti piccolo, piccolo. Solo così ho cominciato a capire il Vangelo, ho cominciato a sentirne il
sapore come di qualcosa che si conosce perché lo si sta vivendo.
E non importa se in
tutto questo rimangono i dubbi, le difficoltà, i continui e mai conclusi
tentativi per una vita che non sia mascherata da troppe belle parole,
finalmente libera dal frutto delle passioni come il desiderio, la paura,
l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. La missione è questo
cammino; il Vangelo era ed è ancora oggi scomodo, scomodo non tanto per coloro a cui lo annunciamo quanto per noi che ne
siamo gli annunciatori.
Credo sia questo anche
il succo del discorso che il Papa ha voluto proporre per la giornata del malato
di quest’anno: “Quando si riduce la
fede a sterili esercizi verbali, senza coinvolgersi nella storia e nelle
necessità dell’altro, allora viene meno la coerenza tra il credo professato e
il vissuto reale”.
E nel cammino della vita scopri così, con sorpresa, che non sei tu ad aver
guarito i malati ma sono i malati che hanno guarito te.
Gildo Dott. Coperchio sx
Missionario saveriano