LETTERA CHE CI E' ARRIVATA DA CHEMBA - MOZAMBICO IL 27 MARZO SCORSO
Visioni
0. Come un film
Erano quasi vent’anni che le parole che scrivo ogni tanto
sul diario non andavano a capo prima di arrivare all’estremità del margine
destro. C’è voluta una notte di metà dicembre, qui nel mezzo della savana, a
due passi dalla riva destra del grande fiume Zambesi. E, nel mezzo di quella
notte, una visione.
Dopo dieci mesi di
silenzio del cielo
dopo che già si era
dimenticato il rumore e il profumo che fa quando cade sulla terra secca
dopo che anche i
cactus cominciavano a curvarsi di stenti
dopo una giornata
di sole infuocato fin dal sorgere del suo primo raggio
dopo che alcuni
giorni prima le nuvole erano avanzate per più di duecento chilometri
dall’oceano
decidendo di
svuotarsi rassegnate e stanche a due villaggi da qui
oggi, la notte
ha portato l’ospite
atteso da tempo:
la prima pioggia.
Mi sono alzato dal
letto e
mi sono seduto
davanti alla porta di casa
a guardarla scendere.
Come si guarda un
film.
1. Visioni sospese
«Mbwenye pang’ono» è
l’espressione della gente quando i convenevoli della conversazione, dopo avere
toccato i primi due pilastri della vita - manungo
(il corpo, per dire la salute) e nyumba
(la casa, per dire la famiglia) - scivolano sul terzo: munda (la campagna, che è il sostentamento primario della vita). «Mbwenye pang’ono», vale a dire «un po’
meglio». Un po’ meglio «rispetto all’anno scorso», sottointeso. Diversamente non poteva essere. Il 2016 sarà
ricordato come anno di nyatwa, vale a
dire «sofferenza», a causa della siccità e della fame.
Incontrando le nostre settantacinque comunità, ci
rendevamo conto che alcune erano più che dimezzate. Altre addirittura scomparse.
Molte famiglie si erano infatti trasferite nelle isole del grande Zambesi per
tentare di produrre qualcosa. Distanti fino a cinquanta chilometri da casa,
costruivano là la loro capanna nella speranza di un minimo di raccolto. A
partire da ottobre erano intervenute anche le Nazioni Unite che, attraverso il
programma mondiale per l’alimentazione, hanno distribuito in maniera massiccia
mais e fagioli. E pare che la distribuzione sia stata piuttosto oculata, dato
che ne hanno beneficiato anche i nuclei familiari che appartengono all’opposizione.
Dettaglio non automatico in tempi di guerra.
Attesa, sperata, implorata, pregata. Quante mani hanno
battuto quanti tamburi per quante notti, per invocarla come si invocano gli
spiriti degli antenati. Quando una notte di dicembre, la prima pioggia ha
deciso di cominciare a scendere, non poteva non apparire in forma di visione. Come
una visione è venuta e come una visione se n’è andata. E poche altre volte si è
fatta vedere. Visioni sospese. Film che termina, ma senza epilogo, senza la
parola “fine” e neppure i titoli di coda. Spettatori contenti a metà. Però,
nonostante tutto, «mbwenye pang’ono», dice
la gente.
2. Visioni nuove
Gli esami sono finiti ai primi di dicembre, mentre il nuovo
anno scolastico è cominciato alla fine di gennaio. In mezzo ci sta il tempo
delle ferie che coincide con il culmine del grande caldo e della stagione delle
piogge. Ogni tanto mi telefona uno dei ragazzi per raccontare dov’è, cosa sta
facendo, oppure per chiedere come va.
Marino - che con ora sta frequentando la 12°, vale a dire l’ultima classe del
ciclo di studi - mi chiama in un pomeriggio torrido di gennaio per raccontarmi
che si trova a Beira, la seconda città del paese, in casa dello zio. La
famiglia di Marino vive a Cado, villaggio di poche capanne sparse a 60 km da
Chemba, dove le capre sono più degli umani. È la prima volta che Marino va in
città. Gli chiedo come si trova, se gli piace. Risponde: «Certo, padre. Qui è
tutto strano. Ad esempio, le case stanno una sopra l’altra».
Ai primi di gennaio, constato che il mulino elettrico con
il quale i ragazzi ogni giorno macinano il mais con il quale cucinano la nshima necessita di manutenzione prima
che inizi il nuovo anno scolastico. Il mulino è fabbricato a Chimoio, città a
poche decine di km dallo Zimbabwe e che dista 420 km dal villaggio di Chemba. Alcuni
ricambi del mulino si trovano solo là. Inoltre, servono una quindicina di
materassi in più. Quest’anno saranno infatti cento i ragazzi e le ragazze
ospitati nelle due case di accoglienza per gli studenti, quindici in più
rispetto all’anno scorso. Decido così di andare a Chimoio per comprare i
ricambi del mulino e i materassi mancanti. È il tempo delle piogge e devo
percorrere circa 150 km di foresta. In questi casi è bene non viaggiare da
soli. Provvidenzialmente Ezequiel (che nella lettera n° 16 aveva ammazzato il
maiale della signora del villaggio accanto) deve passare per Chimoio per andare
a trovare il fratello. Gli do volentieri un passaggio. Non incontriamo pioggia nel cammino e riusciamo a percorrere senza
difficoltà i 150 km di foresta in circa tre ore. Terminata la foresta,
arriviamo a Nhamapaza ed imbocchiamo la strada nazionale n° 1 che unisce il sud
e il nord del Mozambico. Mentre guido, osservo che Ezequiel si muove agitato
sul sedile e si guarda continuamente attorno, quasi fosse disorientato o avesse
perso qualcosa. «Magari sta pensando che abbiamo sbagliato direzione», rifletto
tra me. Poi mi accorgo che, dal finestrino laterale, guarda incuriosito con
attenzione la strada. «Ezequiel, ma per caso è la prima volta che vedi l’asfalto?».
Ezequiel mi guarda stralunato e mi risponde con un’altra domanda: «Padre, cos’è
l’asfalto?».
3. Visioni opache
Nei mesi precedenti, televisione e stampa avevano parlato
di Chimoio poiché nel giro di poche settimane era stata devastata per ben due
volte la sede della Renamo, il principale partito di opposizione. La seconda
volta era stata fatale: le fiamme avevano bruciato documenti, computer,
archivio e materiale elettorale, rendendola del tutto inagibile. Subito si era
pensato alla mano degli squadroni della morte. Al soldo della Frelimo, il
partito ininterrottamente al potere da ormai 42 anni, eseguono il lavoro sporco
in questa guerra a bassa intensità, iniziata ormai quattro anni fa. Rapimenti,
omicidi e intimidazioni a membri dell’opposizione, a giornalisti e a magistrati
con l’obiettivo di bloccare la parte sana della società e reprimere alla radice
qualsiasi minimo e pacifico tentativo di costruire una alternativa.
È metà mattina e, dopo qualche mese in mezzo alla savana,
mi trovo in una città. Ci sono abitudini dure a scomparire. Così, cerco un
caffè. Sarà che la città è piccola, oppure sarà per coincidenza, trovo un
parcheggio proprio davanti alla sede della Renamo devastata e bruciata. Attraverso
le inferriate della finestra, do una occhiata dentro e faccio qualche foto.
Due giorni dopo quelle foto e quel caffè, sarebbe
iniziata l’ennesima tregua congiunta dichiarata dai due contendenti. La tregua
è ancora in vigore e stavolta sembra che regga; ma essa rimane una questione
tecnica e, in ogni modo, consequenziale. La radice sta infatti nella concentrazione
sproporzionata di potere che la Costituzione vigente consegna nelle mani del
partito che vince le elezioni politiche. Senza ottemperare al principio
dell’indipendenza dei poteri, messo palesemente in discussione da ingerenze spropositate
dell’esecutivo nei confronti del legislativo e del giudiziario. E senza tenere
conto che a livello regionale e locale si possono avere maggioranze differenti
da quella che ha vinto a livello nazionale. Ad esempio, sia nella nostra
regione di Sofala che nel nostro distretto di Chemba, la Renamo ha vinto le elezioni
politiche di tre anni fa. Eppure, sia la regione che il distretto sono governati
da un Presidente di regione e da un Amministratore di distretto della Frelimo, entrambi
non scelti dalla popolazione, ma nominati dal governo centrale. La cosa si
complica ancora di più, dato che la Renamo non riconosce il risultato di quelle
elezioni a seguito di ben documentate prove di brogli sistematici diffusi. Il
superamento dell’empasse sta, allora, nella riforma della Costituzione. Che si
gioca in Parlamento. Dove, però, la Frelimo ha la maggioranza assoluta e penserà
bene prima di approvare una riforma che farebbe vacillare un sistema di potere
tanto granitico quanto tentacolare. Per ora, quindi, all’orizzonte, si scrutano
visioni opache. Con l’auspicio di non dovere sperare, tra poche settimane, in un’altra
ennesima fragile tregua.
4. Visioni prosaiche
Ho un ricordo vivo degli otto anni di formazione vissuti
in Italia prima di partire per l’Africa. Quando ci penso, la bocca si apre al
sorriso e il cuore è felice. Mi capita spesso. Perché la vita fa sedimentare le
cose belle, per poi centellinarle con saggezza, facendole riaffiorare poco alla
volta in una visione che dura un attimo, ma che è tanto potente da rendere
quegli istanti eterni nella coscienza.
Quegli anni sono stati anche l’opportunità per conoscere
ed ascoltare decine di missionari che hanno donato la loro vita agli altri e,
in quel donarsi, hanno cercato di incontrarvi Dio. Tra una jeep impiantata nel
fango e una fuga avventurosa da un attacco dei ribelli, tra una notte passata in
foresta e una visita alle comunità durata settimane di cammino con montagne da
superare e fiumi da guadare, il racconto del
missionario è un genere letterario che assume tutti i tratti dell’arco
che va dall’epico al faceto. Immancabilmente e con una punta di orgoglio, il racconto
non può esimersi dal menzionare le grandi opere che hanno reso celebre il tal
missionario. Chi una scuola, chi una chiesa, chi un pozzo, chi un ospedale e
così via. Quando un giorno, forse, qualcuno mi chiederà quale fu la prima
grande opera che ho seguito in Africa, anche io potrò vantarmi, rispondendo fieramente:
«un bagno».
Pochi giorni prima
che cominciasse il nuovo anno scolastico mi azzardo ad entrare nei bagni della
casa di accoglienza delle ragazze, cosa che non avevo mai fatto da quando mi
trovavo a Chemba. Con mio sommo stupore prendo atto che il numero è
fisiologicamente esiguo rispetto al numero di ragazze che la casa avrebbe
ospitato da lì a pochi giorni. A fianco del magazzino c’è una piccola sala in
disuso. Lampo di genio di un imprenditore edile mancato, in pochi attimi ho già
in testa la disposizione e le misure dei nuovi bagni. Facile a pensarsi, meno a
farsi. Soprattutto se si sta in mezzo alla savana. Per prima cosa, trovare un
muratore che sappia tirare su una parete dritta. Fatto. Poi, è la volta dei
mattoni: due volte in riva allo Zambesi tra buchi che sembrano voragini e
fango, dove il signor Marcos cuoce mattoni di argilla. Con i ragazzi carichiamo
il Land Cruiser sul quale entrano seicento mattoni per volta. Fatto. Poi,
chiamare il signor Zaccheo che scava due fosse biologiche. Fatto. Poi, di nuovo
con i ragazzi, stavolta per procurare la sabbia e raccogliere le pietre che fanno
da strato di fondo alla fossa biologica. Fatto. Per il cemento, si va a Sena,
che dista 40 km. Fatto. Più complicato, invece, per i cavi di acciaio del cemento
armato e per i tubi degli scarichi. Si deve andare a Caia, 100 km. Fatto.
Infine, il falegname Tomàs per le porte. Fatto. Visioni prosaiche e un bagno in
più in mezzo alla savana. Le grandi opere avanzano. Fatto.
5. Visioni aperte
Una visione dietro l’altra e si diventa visionari senza rendersene
conto. Così, un giorno di gennaio, mi sveglio al mattino con la pioggia e con l’idea
di fare un giornale. Il primo giornale in mezzo alla savana. E se anche io – cresciuto
con fondamenti solidi di materialismo storico al liceo e all’università – fino
ad allora avevo qualche dubbio sulle visioni, a confermarmi che di visione in
fondo si tratta, è il fatto che, assieme alla visione del giornale, è piombata
anche la visione del nome del giornale stesso. Tutto in un colpo, senza neppure
pensarci un attimo. Una visione, appunto.
Un giornale da fare con i ragazzi. Niente di complicato:
un foglio A3 piegato in due, un numero a trimestre. Un editoriale e qualche
rubrica. Ad esempio una rubrica sulla scuola, che così come è impostata in
Mozambico crea persone che sanno ripetere più o meno bene, ma incapaci di una
analisi della realtà e di un pensiero critico. Un’altra sulla situazione
politica e sociale del paese che, appeso ad una fragile tregua militare, tra
debiti nascosti, corruzione endemica e inflazione a due cifre, non è delle
migliori. Un’altra rubrica riguardante uomini e donne che, a partire da una
visione, hanno segnato e cambiato la storia dell’Africa. Un’altra di commento
agli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: principio di
uguaglianza degli esseri umani in termini di dignità e diritti, diritto alla
libertà di pensiero, diritto alla libertà di espressione, diritto
all’istruzione, cercando di evidenziare come tali diritti siano ancora distanti
dall’essere implementati nel nostro paese. Un’altra rubrica meno impegnativa di
sport o affini e magari una vignetta. Un giornale per pensare, non da soli ma
assieme; per creare e fare circolare idee; per riflettere sulla realtà e – con
un po’ di sana e giusta presunzione – per prendere coscienza che le cose
cambiano se qualcuno compie il primo passo di pensarle in maniera differente.
Accennavo al nome. “Pa
kwecha”, approdato in visione assieme alla pioggia e assieme all’idea del
primo giornale in mezzo alla savana. “Pa
kwecha”, che in chisena significa pressappoco “apertamente, alla luce del
sole”. Il contrario di chibiso-biso,
che vuol dire “di nascosto” e che è la prassi con la quale si esercita e si auto
perpetua il potere, oggi, in Mozambico. Chibiso-biso,
“di nascosto” che è anche la regola con la quale il sistema della paura soffoca
l’espressione libera delle idee.
Mondovisioni
Non passano quattro mesi senza che i miei genitori mi spediscano
un pacco postale. Arriva a Beira, a 500 km da Chemba, perché, qui in mezzo alla
savana, le poste non esistono e le strade non hanno nomi. Dentro, generalmente,
trovo qualche medicina e qualche libro. Una volta anche le scarpe da calcio, un’altra
il sacco a pelo per quando dormo nelle comunità nelle notti del tiepido inverno
africano. Quando arriva un libro, amo sostare davanti alle parole che mia madre
e mio padre scrivono in dedica. Poche parole scritte a mano azzerano in un
attimo migliaia di chilometri nello spazio e tre anni di assenza reciproca nel
tempo. Qualche mese fa, ho ricevuto anche alcuni disegni realizzati dalle mie
nipotine. Ce n’era uno di Lucia, quattro anni di età, la terza dei cinque figli
di mia sorella: un’esplosione di colori in forma di linee e macchie, a metà
strada tra un Kandinsky e un Mirò, con la didascalia redatta da sua madre: «Ho
disegnato tutto il mondo».
Anni fa all’università, da quel poco di sociologia che
avevo studiato, avevo imparato che la realtà è complessa e sistemica, che
esiste una eterogenesi dei fini, che i fenomeni storici e le vite degli umani
si danno dentro reti intricate di multiformi interazioni sociali. Visioni argute,
affascinanti e, di certo, anche plausibili.
Ora, dopo cinque anni di Africa – di questa Africa,
l’Africa rurale, lontana dalla città e dalle sue dinamiche globalizzate – tutto
sembra più semplice e chiaro. Le cose importanti della vita e quelle superflue.
Ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Ciò per cui vale la pena lottare. La
differenza tra un’alba e un tramonto. Il vento che porta la pioggia e quello
che porta la secca. Chi opprime e chi è oppresso. Chi depredando si arricchisce
e chi vive dignitosamente la sua onesta povertà.
La realtà rimane articolata e complessa nelle sue
infinite sfumature di grigio che stanno tra il bianco e il nero. Solo è diventato
più semplice, nitido e immediato il modo di osservarla e di comprenderla. È questa
prospettiva delle cose, questa visione della realtà che determina lo stare e l’agire
nel mondo. L’assunzione di responsabilità, il decidere da quale parte stare, quale
senso e quale direzione dare all’azione.
In questo senso, mi sento molto prossimo a mia nipote
Lucia di quattro anni che, in poche linee e macchie colorate, ha una visione
perfetta di tutto il mondo. Mi piace immaginare che anche Gesù pensasse allo stesso
modo quel giorno in cui esclamò: «Ti benedico o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le
hai rivelate ai piccoli».
Chemba, 27 marzo
2017
Baba Andrea
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