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IL 21/04/2016 p. ANDREA CI HA SCRITTO DA CHEMBA SUA NUOVA DESTINAZIONE DALL'ALTRA PARTE DELLO ZAMBESI
 


Porte aperte

0.0. Benedetta malaria

Ndalusa, villaggio di poche capanne sparse a trenta chilometri dal grande fiume Zambesi. Dovrebbe essere la stagione delle piogge. Invece, la savana infuocata è lo specchio preso in mano dal sole. L’acqua quest’anno ha deciso di voltare le spalle alla legge gravitazionale ed è rimasta lassù. Altre leggi, invece, ha violato chi ha sventrato la foresta lì accanto. Terra desolata di erba secca, pietre, sabbia e ceppi di alberi secolari amputati a livello del suolo.

Ndalusa. Ci arrivo un venerdì di marzo e ci rimango fino a domenica. Le famiglie giungono a piedi o in bicicletta anche da Chió e da Dzinga. Mamme, papà, bambini, giovani. Portano il sorriso sulla bocca, i neonati dietro la schiena, il canto nel vento, la farina per la nshima avvolta in un panno sopra la testa, la capra o la gallina per il pranzo della domenica. Hanno costruito una capanna di tronchi, paglia e fango essiccato tutta per me. Sobria e confortevole. Come altezza ci siamo abbastanza: inclinando un poco il capo, ci sto perfettamente. Il problema è la lunghezza: di notte i piedi devono dormire fuori dalla porta.
 
Il lunedì, verso mezzogiorno, dopo avere fatto lezione, avverto dolore alle gambe e la sensazione nitida di avere la febbre. Vuoi che sia la stanchezza? Invece no. Benedetta malaria che per due giorni mi stendi pacifico sul letto col ventilatore sparato in faccia. Benedetta malaria che mi fai girare la testa, assieme alle idee che ci stanno dentro. Benedetta malaria, che elargisci con abbondanza il dono del tuo potere visionario grazie al quale affiora alla mente la porta della capanna di Ndalusa - luogo del tuo più che probabile concepimento - e le zanzare sue pie e devote custodi. Benedetta malaria che mi regali alcune ore tranquille, mi fai roteare per la mente altre porte e mi folgori con l’intuizione per cominciare a scrivere questa lettera.

0.1. Una casa, quattro porte

Ho iniziato l’anno nuovo a Chemba. Ci sono arrivato due giorni prima. Da quel giorno ci sto felicemente. Qualcosa di Chemba avevo già raccontato circa tre anni fa, quando qui trascorsi alcuni mesi per approfondire lo studio della lingua Chisena, prima di andare a Charre. Chemba, che si pronuncia con “ce” di “c’era una volta”. Chemba, terra rialzata, appoggiata sulla riva destra del fiume Zambesi. Chemba, che nonostante sia villaggio di capanne, è pure Distretto, perché in mezzo alla savana dovrà pure esserci un Distretto. Chemba, che in questi tre anni, ha visto gli effetti radiosi del progresso. Ora c’è anche un container metallico con la scritta “banca”. Dove le capre sono più degli umani, non è che circolino grandi capitali. Però, almeno, i funzionari pubblici evitano di percorrere più di cento km di strada sterrata in moto per andare a ritirare lo stipendio nell’altra banca più vicina. Viva la concorrenza.
 
Potrei dilungarmi a scrivere di Chemba. Ma preferisco raccontare della nostra casa. Che ha quattro porte. Raccontare di porte. Non tanto per chiudere gli orizzonti. Al contrario. Per dilatarli. Perché le porte della nostra casa sono piuttosto aperte.

1. Porta prima: la parrocchia

Di prima mattina, quando si apre la porta dell’ingresso principale, si vede il sole alzarsi dalle montagne che, dall’altro lato del fiume, fanno da confine col Malawi. È la porta che si apre per accogliere gli ospiti. La maggior parte arrivano in bicicletta o in moto dalle settantasei comunità che compongono la parrocchia di Chemba. La più distante delle comunità è a poco più di cento km. Le strade sono tutte sterrate, ma non sono tanto male: i camion dei cinesi carichi di legname da qualche parte devono pure passare.

Quando fu creata nel1947, la parrocchia di Chemba ripeteva il modello delle antiche missioni: chiesa, scuola e ospedale. Il vescovo del tempo, un portoghese illuminato, consigliava saggiamente di costruire le missioni un poco distanti dal centro abitato, in modo tale che la popolazione autoctona non identificasse il potere oppressore coloniale con la Parola liberante del Vangelo. Poi, nel 1975, l’indipendenza, la nazionalizzazione e la guerra, protrattasi fino al 1992. Quando i primi Saveriani arrivarono a Chemba nel 1998, c’erano solo macerie. Una foto mostra un grande albero in mezzo a ruderi. È la sala di casa nostra.

Due fine settimana ogni tre vado nelle comunità. Parto il venerdì e torno la domenica. L’ospite è accolto con reverenza. La capanna, la tarimba - una sorta di letto rialzato fatto di canne - , il menù fisso a base di polenta e carne di capra anche a colazione, l’acqua per lavarsi. A Chigonda c’è anche il bagno, costruito con rami e sterpaglie. Senza porta. «Signor padre, non si preoccupi, l’entrata è sul lato dove non passa nessuno». Così mi dicono al principio di una notte senza luna. La mattina seguente, all’alba, prendo atto che invece è proprio sul lato della strada. Va bene così, cantava Vasco. Il cuore sorride ed è felice.

A Chadeca, Rodrigues - un bambino di dieci anni - mi chiede: «Mwachita tani towera kukhala nzungu?», che significa: «Come hai fatto per essere bianco?». Capita che a volte la bocca sia più rapida della testa nel formulare una risposta. Come quel sabato pomeriggio a Chadeca, quando davanti a Rodrigues, scoppia a ridere come da tempo non rideva. Meravigliato, mi risponde con un’altra domanda: «Mwabalwa tenepa na Mulungu?», «Sei nato così da Dio?». Ci sono domande che sono belle così, senza la presunzione di una risposta. L’ho scritta sul diario per tenerla stretta. «Chadeca, sabato 2 aprile 2016. Sei nato così da Dio?».

Il venerdì cominciamo con la formazione dei catechisti. In zone dove andiamo due sole volte all’anno, sono loro che fanno stare in piedi la comunità. Molti sono poligami. D’altronde, in alcune comunità, il Vangelo è stato preso in mano per la prima volta cinque anni fa.

Il sabato, abbiamo deciso di dedicarlo alla divulgazione della “Legge della Foresta”. A Charre l’avevamo studiata e ne avevamo tradotto in Chisena alcuni articoli assieme ad alcuni membri di “Giustizia e Pace”. A Chemba, a gennaio, abbiamo terminato una buona sintesi assieme a due catechisti. È il punto di partenza per il lavoro nelle comunità . Siamo in ritardo di almeno dieci anni. È da allora che le imprese cinesi hanno cominciato a sventrare le foreste della nostra zona. Il Distretto di Chemba si colloca ai primi posti nel paese per taglio illegale di legname pregiato. Di ebano, pau-ferro, chanfuta, panga-panga, sandalo e misano è rimasto ben poco. La “Legge della Foresta” fu approvata dal parlamento nel 1999 quando il fenomeno del saccheggio delle foreste era ancora agli albori. I due decreti ministeriali del 2002 e del 2005 vanno nella stessa linea di diminuzione del danno, restringendo le specie di alberi che possono essere tagliati, fissandone le dimensioni, cercando di coinvolgere la comunità locale nel processo decisionale, destinando un 20% della tassa pagata allo Stato a progetti di sviluppo sociale a beneficio della stessa comunità e un 15% per il rimboschimento. Tutto sommato, buone leggi. Purtroppo, totalmente disattese.

La corruzione, da relazione illecita giocata sottobanco tra l’élite politica della Frelimo e il capitale straniero, col passare degli anni, è divenuta metastasi endemica capace di raggiungere capillarmente la capanna più recondita del paese. A patto che attorno ci sia una foresta. Non è più necessario che i cinesi si scomodino compiendo un percorso arduo di 500 km da Beira fino a qui per abbattere alberi. Sono gli stessi capi villaggio che si sono trasformati in piccoli imprenditori abusivi del taglio illegale di legname pregiato. Sono sufficienti alcune motoseghe e un trattore. Altri imprenditori - un po’ più intraprendenti dei primi, che         al posto del trattore dispongono di qualche tir, che hanno già pagato tangenti al Distretto, alla Provincia e alla polizia di transito; e che per fare tutto questo non possono non essere legati all’onnivoro partito-stato Frelimo - fanno giungere direttamente il legname fino al porto di Beira dove viene venduto ai cinesi.

La manodopera è locale. Molti lavoratori non hanno mai preso in mano una motosega fino a prima. Sottopagati e inesperti, alcuni muoiono schiacciati dai tronchi. Come è successo ad un uomo di Tomusene, morto con il cranio aperto in due. La famiglia ignora di avere diritto ad un indennizzo, come ignora la possibilità di intraprendere una causa legale contro il datore di lavoro. Riceve un denaro di niente per tenere chiusa la bocca. E c’è chi è tanto schiacciato nella vita da confondere la pietà con il ricatto, fino al punto di dire grazie a chi gli ammazza un familiare e compra il suo silenzio. A Chigonda, a Xavier e a Chadeca i capi villaggio hanno venduto gli alberi secolari dei rispettivi cimiteri riuscendo a riempire un tir ciascuno. «Saranno gli spiriti degli antenati a maledirli» dice la gente. Prima che gli spiriti li maledicano, però, hanno già intascato 25000 meticais ciascuno. Circa 500 euro, che qui non è poco. Davanti al dio denaro, si perde la ragione e l’umanità, si è all’improvviso affetti da sindrome irreversibile di amnesia cronica delle proprie radici ancestrali, cade l’oblio sul culto dei propri antenati, si smarrisce il legame viscerale con la terra. Davanti al dio denaro, si barattano e si sventrano foreste secolari. E, assieme alle foreste, si barattano e si sventrano le vite dei poveri.

2. Porta seconda: la scuola

È quella che dà sul lato sud della nostra casa. La sera, dopo cena, la apro per andare a vedere se è ancora lì - come la sera precedente, coricata ai piedi della Via Lattea - la Croce del Sud, costellazione di riferimento nella vertigine della notte australe. Lì a duecento metri, sotto la Croce del Sud, spostata appena un poco più a sinistra, c’è la scuola.

Alla sera, dopo cena, c’è ancora il movimento degli studenti del corso serale. Ci studiano in 800 suddivisi in tre turni. Molti vengono dai villaggi distanti e si costruiscono una capanna dove vivono durante l’intero anno scolastico che comincia a febbraio e termina a novembre. In Mozambico esistono due livelli di scuola: primario (dalla prima alla settima) e secondario (dall’ottava alla dodicesima). La nostra è una scuola secondaria ed ha cominciato a funzionare nel 2002, tre anni dopo l’arrivo dei primi Saveriani a Chemba. Giuridicamente è una scuola comunitaria, riconosciuta dallo Stato. Allo Stato spetta la direzione, mentre a noi spetta l’amministrazione. Concretamente questo significa che i professori sono pagati dallo Stato, mentre la manutenzione della scuola spetta a noi: strutture, materiale formativo, computer, banchi, gessi. La carta igienica, quella no. Qui non si usa. Come amministratori possiamo intervenire nel progetto educativo. Parola grossa. Per farla breve significa, ad esempio, che per essere promossi non si deve pagare una capra - o l’equivalente in denaro di una capra - al professore, come invece è prassi consueta nella maggior parte delle scuole del paese. L’anno scorso è stata ultimata la costruzione della biblioteca. I libri arrivano poco alla volta. Ma è già un piccolo gioiello in mezzo alla savana.

Il lunedì mattina faccio lezione alle due classi di decima. Lezione di etica. Quasi gratis, tanto per essere etici. Ho pensato di impostare il corso sulla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Sto terminando il primo trimestre, ma sono ancora all’introduzione, che ho intitolato: “Poche parole chiave per aprire molte porte”.  Fino ad ora abbiamo visto “società”, “cultura”, “politica”, “economia”, “persona”, “ideologia”, “fede”. Le parole sono alberi. Ne abbiamo cercato le radici sui libri, nella storia e nella prassi della nostra vita quotidiana: il villaggio, la sua gente, le capre, la terra, la tradizione degli antenati, il nostro paese, le sue disuguaglianze, la guerra qui a poche decine di chilometri. Per imparare a stare nel mondo da persone con la schiena dritta e con la testa alta, cominciamo a diventare signori delle parole.

3. Porta terza: gli studenti e la loro casa

Non conto le volte che stanno battendo alla porta di fianco alla finestra della mia stanza mentre sono al computer per tentare di scrivere questa lettera. Una volta è António per informarmi che Dezanove ha la diarrea. Un’altra è Chatdenza per avvisarmi che sta terminando la legna per il fuoco della cucina. Un’altra è Abibo che ha finito la lezione e chiede il pallone. Un’altra è Abel per consegnarmi le chiavi della biblioteca. L’ultima volta è una signora del villaggio vicino che viene giustamente a reclamare perché i ragazzi hanno ammazzato il suo maiale dopo averlo scambiato per il nostro. Colpa di Ezequiel (al quale io ho detto di ammazzare il maiale per il loro pranzo di domani) oppure colpa del maiale fuggitivo del villaggio accanto?

A battere alla terza porta di casa nostra sono i ragazzi dell’internato. “Internato” nella lingua italiana è proprio una parolaccia. Mentre nella lingua portoghese è parola piuttosto neutra. Indica la struttura che accoglie gli studenti che provengono dai villaggi distanti e che qui sono accolti durante l’intero anno scolastico. Una buona alternativa alla capanna. Quest’anno sono 70 ragazzi nell’internato maschile e 20 ragazze in quello femminile. Proviamo a fare del nostro meglio perché oltre che a trovare un tetto, un letto e tre pasti decenti al giorno - che qui non sono poca cosa - sia anche un luogo dove si cresce assieme.
Quando mi è stato chiesto di seguire i ragazzi dell’internato, mi sono fatto spedire dai miei genitori tutti i libri di don Milani che avevo a casa. Buona e sana fonte di ispirazione anche in terra africana. Le strade si fanno camminando e i cammini non si fanno da soli. Nel tempo del lavoro pomeridiano, in questo ultimo mese, abbiamo preparato la terra per l’orto. Tutti a zappare. Anche io. La settimana scorsa abbiamo seminato. Speriamo bene.

4. Porta quarta: dalla quale entriamo ed usciamo noi

Per ultima, dietro casa, ad occidente, dove ogni sera puntuale alle diciotto o giù di lì, si assiste all’incanto del sole che scende tirato in basso dalla calamita della notte, c’è la porta dove passiamo noi. Dal Congo, dal Messico e dall’Italia. Tre, abbastanza giovani e con tanta voglia di fare. Enrique, il più vecchio con quarant’anni di vita, alza il peso medio della comunità con i suoi centoventi chili. Dalla porta ad occidente ci rientriamo ogni sera, piuttosto stanchi, ma altrettanto felici. A cena, ci si racconta, spesso davanti ad una birra che, nel tempo del caldo feroce, è una buona alternativa all’acqua piovana che siamo soliti bere e una benedizione alla giornata che chiude un’altra sua porta.

Per chiudere: versi ingiusti...

A Chemba, entrando e uscendo da una porta. In questo anno 2016 nel quale tante cose non vanno per il verso giusto. A partire dalla pioggia, che è rimasta lassù. Qualche temporale alla fine di marzo, non è stato sufficiente ad impedire che questo sia un anno di siccità e di fame. Il mais, più volte seminato tra dicembre e febbraio, è totalmente seccato. Ora si spera con il sorgo. Si spera con poche speranze, perché la prossima pioggia, se il cielo sarà clemente, arriverà a novembre. Soffrire per la siccità a due passi da uno dei più grandi fiumi del mondo. Paradossi africani. Ma anche paradossi globali.

Non va per il verso giusto anche la tensione politico-militare. Se non è precipitata la pioggia, è infatti precipitata la guerra. È guerra, ormai, nelle zone di Gorongosa, di Manica e di Morrumbala. Circoscritta a queste aree di foresta e boscaglia, ma ugualmente violenta. Il governo ha cercato fino all’ultimo di occultare. Ma non si possono nascondere i feriti che arrivano a decine nell’ospedale di Beira e il grido delle madri che piangono i loro figli mandati a sparare in mezzo alla foresta e seppelliti in fosse comuni. Nelle città e nei villaggi, sono uccisi o rapiti i responsabili dell’opposizione. Il mese scorso a Sena, a quaranta chilometri da qui, una sera hanno rapito e ucciso tre militanti della Renamo. Mentre in un villaggio nel distretto di Caia,  ad un centinaio di chilometri da Chemba, soldati governativi, non avendo trovato in casa un leader della Renamo, gli hanno ammazzato due figli, tagliando loro le gambe col machete. Si è creata una strategia della tensione per la quale la gente ha paura solo a parlarne. La parola “guerra” è tabù. Impronunciabile, perché evoca il milione di morti della guerra civile che si pensava di riuscire a dimenticare con gli accordi di pace del 1992. Ma ci sono porte che faticano a chiudersi. Così, ventiquattro anni dopo, la Frelimo, per farla finita con la Renamo, sta ammazzando un paese.

...E per aprire: versi giusti

Ho fatto Pasqua a Chigonda sotto un grande albero di chanfuta. Seduta attorno la gente arrivata a piedi o in bicicletta anche da Mulima, da Fumbe, da Cassume e da Inyademzwa. Gesù a Chigonda è risorto all’ora del tramonto e senza l’energia elettrica. Gesù a Chigonda è risorto con i bambini a giocare dietro le mie spalle e con le mamme lì davanti ad allattare. Gesù a Chigonda è risorto mentre dal rimorchio di un trattore venivano scaricati i tronchi di misano che il mattino di Pasqua il tir avrebbe trasportato fino a Beira, passando a pochi chilometri dalla selva di Gorongosa dove ogni giorno si muore a causa di una guerra voluta da una manciata di arroganti. Gli stessi che duemila anni fa avrebbero deciso di mettere Gesù su una croce. Però, nonostante tutto, Gesù ha deciso di risorgere anche a Chigonda.

Gesù, risorgendo, ha aperto una porta. Quella della vita. Della vita piena, potente e debordante. Per tutti, nessuno escluso. Assieme alla porta della vita, ha aperto la porta della speranza, la porta della giustizia, la porta della pace. Da queste porte, passa chi lotta e crede in un domani migliore. C’è qualcuno che queste porte si ostina a chiuderle. Il verso giusto delle cose del mondo dipende dagli apritori di porte.

Chemba, 21 aprile 2016
Baba Andrea


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